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Ida











Sembra abbia sempre molto da raccontare Pawel Pawlikowski, regista nato in Polonia e poi trasferitosi in pianta stabile nel Regno Unito.
Dobbiamo viaggiare idealmente a ritroso nel tempo fino all’ultima decade degli anni 80 per osservarlo documentarista e vincitore di svariati premi, immediatamente prima di ottenere il giusto riconoscimento come regista. Ci ha deliziato in passato con “Last Resort” e “My Summer of Love”, ora torna con la sua ultima fatica: ”Ida”, una pellicola combattuta, sofferta e toccante.
Un capolavoro in bianco e nero di soli 80 minuti in grado di riscuotere consenso di critica e ben due nomination ai Premi Oscar 2015 come miglior film straniero (Polonia) e miglior fotografia (per il lavoro di Ryszard Lenczewski e Lukasz Zal). E’ tutta antitesi e guerra di tonalità chiaroscure questa storia di una ragazzina orfana chiamata Anna, che passa le sue giornate in un convento della fredda Polonia, spinta dalla madre superiore qualche giorno prima di ottenere i voti verso l’incontro con zia Wanda, l’unica parente che le rimane in vita. Sarà un rapporto contrastato quello che vedrà quest’ultima e la nipote, finalmente riunite dopo molti anni di indifferenza, alle prese con un viaggio inaspettato per comprendere le motivazioni che hanno portato al decesso dei genitori della ragazza durante la Seconda Guerra Mondiale. Uno scontro continuo tra fede e negazione totale di un qualsiasi credo, profonda attenzione ai doveri di una buona cristiana e dissolutezza annegata nell’alcol, fumo e lascività. Segreti di un passato maledetto, in grado di evocare il triste periodo dell’Olocausto e la realtà cruda del comunismo postbellico.
La difficoltà maggiore nella scelta del cast sembra sia incorsa proprio durante la selezione del ruolo principale. Non soddisfatto di aver esaminato oltre 400 attrici, Pawlikowski ha espresso la sua preferenza per Agata Trzebuchowska, una perfetta sconosciuta del set con nessuna esperienza di attrice o velleità di esserlo un giorno, notata da un amico del regista in un cafè di Varsavia, mentre leggeva rapita un libro. L’accordo si è visto concluso perché la stessa ha ammesso una propria ammirazione personale per “My Summer of Love”. Nemmeno una tormenta di neve, occorsa durante le riprese, è riuscita a rallentare o scoraggiare Pawlikowski, che imperterrito ha sfruttato le due settimane di pausa forzata per correggere qualche punto oscuro della trama, cercare nuove location interessanti e rendere più credibili i dialoghi.
In una recente intervista Pawlikowski ha dichiarato “questo film è un tentativo di recuperare la Polonia della mia giovinezza, oltre a molte altre cose”.
Questa la motivazione principale che lo ha spinto ad ambientare “Ida” forzatamente nel suo paese di origine, donandogli forza descrittiva ed immagini eloquenti. Traspare l’umanità della persona, fotogramma dopo fotogramma, mentre si intreccia la realtà storica di un momento particolarmente doloroso del nostro passato.
Una meravigliosa opera di intelletto acuto, che a tratti diventa provocazione disorientante.
Ci sono numerosi silenzi sospesi tra un dialogo e l’altro, molti sguardi profondi che tentano di esprimere concetti troppo densi di significato per essere banalizzati con le parole. Per questo appare così naturale rimanere attoniti dalle pause “scomode” della narrazione e da pagine che sarebbe bello riscrivere ma vanno comunque ricordate, lette, comprese.
A margine di tutto, la storia si arricchisce nel finale in un crescendo di colpi di scena che sconvolgono l’opinione che avevamo faticosamente costruito per tutta la durata del film. Ma è anche questa forza “evasiva” che colpisce direttamente al cuore. Perché, a volte, per toccare la nostra sensibilità non serve altro che uno sguardo, un’immagine sfuocata e qualche nota scandita nel sottofondo di un toccante silenzio.

La frase:
"Che succederà se arrivata lì scoprirai che non c'è nessun Dio? Dio è ovunque. Lo so.".

a cura di Francesco Gottardo

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