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Kotoko









La storia iconica di una madre single è del suo bambino. Sostanzialmente, è questo che racconta il dodicesimo lungometraggio diretto dal visionario giapponese classe 1960 Shin’ya Tsukamoto, originario di Tokyo e conosciuto soprattutto per aver concepito la folle trilogia “Tetsuo”. E sembra addirittura autocitarsi tramite un momento che ricorda “Tetsuo 2-The body hammer” (1992) nel mettere in scena le gesta della donna del titolo, la quale, interpretata dalla cantante Cocco, non solo lede se stessa tagliando regolarmente la propria carne per ottenere conferma che il suo corpo desideri restare in vita, ma soffre di uno sdoppiamento visivo che la porta a vedere le persone dividersi in due: una positiva e l’altra negativa. Quindi, man mano che apprendiamo che il mondo di Kotoko diventa unico solo quando canta, quella che prende forma è una vicenda drammatica dai toni altamente grotteschi in cui occuparsi del figlio diventa talmente stressante da causarle un esaurimento nervoso; fino a quando le viene portato via dopo essere stata sospettata di maltrattamento infantile. Ma, mentre fa la sua entrata in scena, inoltre, un uomo destinato ad intraprendere con lei una relazione, si avverte non poco una certa critica al caos della vita metropolitana nel corso dei circa 91 minuti di visione, narrati da Tsukamoto attraverso un nervosissimo stile che punta soprattutto sul consueto connubio di agitata macchina da presa e veloce montaggio. Non a caso, tra allucinazioni, incubi ed anche una spruzzata di splatter, si prova quasi l’impressione di essere tornati ai tempi del primo, frenetico “Tetsuo-L’uomo d’acciaio” (1989), privato, però, dell’ambientazione futuristica e spostato sul territorio della realtà. Anche se quello che, non privo di un evidente pizzico d’ironia, si rivela essere un atipico prodotto senza tregua e particolarmente fuori di testa, non solo risulta un po’ troppo pretenzioso, ma rischia a lungo andare di apparire poco chiaro e, di conseguenza, insostenibile per lo spettatore.

La frase:
"I bambini non si allevano con l’istinto ma con l’esperienza".

a cura di Francesco Lomuscio

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