L'illusionista
In un’epoca tridimensionale come quella che cinematograficamente stiamo vivendo, dove la Pixar anno dopo anno macina vorticosamente innovazioni e l’industria di settore sforna pellicole 3D con sempre più frequenza, c’è qualcuno che va controcorrente: è il caso del francese Sylvain Chomet (nomination all’Oscar con "Appuntamento a Belleville") che ha adattato, disegnato e diretto "L’illusionista", da una sceneggiatura originale di Jacques Tati, scritta a fine anni 50 e recuperata a distanza di mezzo secolo negli archivi del Centre National de la Cinématographie.
Per comprendere meglio questa pellicola d’animazione, bisogna entrare nel microcosmo di Tati: accenniamo alla sua figura cercando di non apparire eccessivamente semplicistici. Jacques Tati (1908-1982), mimo e attore di cabaret negli anni 30, è stato un regista d’indubbia grandezza e spiccata originalità nel panorama internazionale sul versante della commedia satirica; il suo umorismo sobrio e sottilissimo, pretesto dissacrante con cui tratteggiava le caratteristiche dell’uomo, ne fa un acuto e inimitabile osservatore della società moderna.
"L’illusionista" dunque riprende la medesima poetica e introduce un tassello più malinconico e intimo: sembra che la storia fosse stata accantonata perché troppo vicina alle vicende personali di Tati, quasi un soggetto autobiografico. Non a caso il testo affronta principalmente due argomenti: la fine dell’epoca del music hall a scapito del vigoroso rock’n’roll e soprattutto il tema universale del rapporto tra padre e figlia (quello del regista con la sua Sophie Tatischeff?).
Un attempato illusionista – ormai fuori moda – vaga tra una città e un’altra alla ricerca di un pubblico che resti stupefatto alla vista dei suoi trucchi. Non va troppo bene, ma un giorno, durante un’esibizione in un pub sulla costa scozzese, incontra una giovane ingenua e incantata di nome Alice che è disposta a credere alle sue "magie" e segue l’uomo che la guiderà delicatamente e amorevolmente all’età adulta.
Il racconto, ambientato a Parigi e in prevalenza Edimburgo, sembra fuori dal tempo; a cominciare dalla pressoché totale assenza di dialoghi e passando per la ricostruzione artigianale (anche per questo è stato deciso di utilizzare il 2D) dei luoghi e dei personaggi che rende in qualche modo più umano e vivo l’ambiente.
Le avventure dell’illusionista, musicate efficacemente dallo stesso Chomet, sono un condensato di arte mimica e – dietro una patina di apparente semplicità – riflessioni attente sulle piccole cose della vita e sulla relazione uomo/denaro/oggetti, in tutte le sue sfumature più ironiche, drammatiche, stravaganti, delicate.
Un piccolo gioiello dell’animazione dedicato a tutti quelli che amano un cinema più classico e spartano vicino a interpreti come Charlie Chaplin e Buster Keaton, oltre che consigliato a tutti coloro che in sala ricercano qualche appiglio che stimoli la propria sensibilità e le emozioni più autentiche.

La frase: "Magician do not exist".

Nicola Di Francesco

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