Wild Field
Non sono molte le terre davvero di confine rimaste al mondo. Per terra di confine si intende una zona a metà fra civiltà e terre selvagge in cui gli uomini, anche se formalmente dipendenti da un’autorità centrale molto lontana dal punto di vista spaziale e mentale, seguono in realtà regole proprie, sulla spinta di esigenze insopprimibili.

La sceneggiatura di Dikoe Pole, campi selvaggi, è stata scritta durante i primi anni ’90 e risente del senso di smarrimento dopo la caduta del comunismo, che in realtà non è diventato un punto d’arrivo quanto piuttosto un lungo percorso di passaggio verso un approdo ancora non visible. Il protagonista di questa pellicola, non a caso, è un dottore, un personaggio classico della letteratura e del cinema russo, il rappresentante più tipico dell’intellighenzia e dell’élite culturale. In fondo anche in Russia, a livello quasi inconscio e istintivo, il medico è sempre stato considerato un pò scienziato e un pò filosofo, conoscitore della natura umana nel suo complesso.

Mitja si trova a esercitare la sua professione nella steppa, in un luogo apparentemente isolato in cui in realtà la sua specialità è richiesta da un certo numero di abitanti sparsi in quegli spazi sconfinati. Il potere locale è tenuto da un ufficiale, la cui autorità è però sempre messa alla prova dai suoi sottoposti che lo sfidano, esaminano il suo operato e osservano le sue reazioni. Al solo scopo di sentirsi rassicurati. Mitja ha una findanzata, che viene talvolta a trovarlo da una grande città, ma il tempo mostra un distacco graduale ma sempre più evidente, come se il giovane medico fosse trasportato via in quei luoghi desolati non solo fisicamente ma anche mentalmente.

Il finale del film d’altro canto non sembra una chiusura, quanto piuttosto il completamento di un rito di passaggio. Viene in mente il ferimento di Andrej sul campo di battaglia in "Guerra e pace" di Tolstoj, in cui il personaggio entra finalmente in contatto con il mondo circostante proprio mentre pensa di lasciarlo. Mentre questo film non deve essere probabilmente interpretato in modo strettamente politico, senza dubbio riporta un senso di attesa e il bisogno di avere un appartenenza, che può essere trovata ovunque anche nei territori più inaspettati del gigante russo.

La frase: "Perché mi hai fatto questo?".

Mauro Corso

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